giovedì 10 aprile 2014

La solitudine dei numeri primi (paragrafi. María José)

Quando i due gemelli erano ancora piccoli e Michela ne combinava una delle sue, come lanciarsi con il girello delle scale oppure incastrarsi un pisello su per una narice, che poi bisognava portarla al pronto socorso per farglielo estrarre con delle pinze speciali, loro padre si rivolgeva sempre a Mattia, il primo ad aver visto la luce  egli diceva la mamma aveva l’utero troppo piccolo per tutti e due.
“Chissà che avete combinato dentro quella pancia” diceva “Mi sa che froza di dare calci a tua sorella le ahi procurato qualque danno serio”.



“È l’unica cosa che so fare” disse lui, peano. Avrebbe voluto dirle che studiare gli piaceva perché puoi farlo da solo, perché tutte le cose che studi dirle che le pagine dei libri di scuola hanno turre la stessa temperatura, che ti lasciano il tempo di scegliere, che non fanno mai male e che tu non puoi far loro del male.
Ma rimase in silenzio.



Denis pensò che a lui non piaceva nessuna delle quattro, che voleva soltanto ache si levassero da davanti e lo lasciassero tornare da Mattia. Che gli restava soltanto un’ora per stare con lui e per guadarlo esistere anche di notte, nell’ora in cui, solitamente, non poteva fare altro che immaginarselo nella sua stanza, a dormire sotto lenzuola di cui non conosceva il colore.




Veniva ogni giorno a fare nulla. Le infermiere si occupavano già di tutto. El suo ruolo era quello di parlare a sua madre, immaginava. In molti lo fanno, si comportano come s i malati fossero in grado di asclotare el pensiero, in grado di capire chi sta in piedi di fianco a loro e dialoga nella propia testa, come se la malattia potesse aprire tra le persone un diverso canale di percezione.

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